Scusami Charles Dickens se approfitto di te, ma è per una giusta causa…
1 – Il fantasma del Che
Tanto per cominciare Che Guevara era morto, e su questo non potevano esserci dubbi. I boliviani avevano restituito prima le mani, accuratamente recise ai polsi, infine il resto del corpo dopo una lunga battaglia diplomatica. Adesso la tomba del Che era al Museo della Rivoluzione, lui era proprio morto, stecchito come il chiodo di una porta, a ricordare quel che era stato restavano solo una statua di cera e qualche monumento di bronzo sparsi per le piazze di Cuba, il più famoso l’avevano eretto a Santa Clara di fronte a un immenso mausoleo.
Fidel Castro lo sapeva bene che Che Guevara era morto e non poteva tornare. La sua fine in Bolivia era stata importante per il futuro di Cuba, lui ne era sempre stato convinto, per questo non aveva fatto niente per tirarlo fuori dai guai. Fidel voleva restare solo, non aveva nessuna intenzione di dividere il comando con un avventuriero argentino. Bene che se ne andasse in giro per il mondo e non rompesse troppo, che facesse la rivoluzione permanente, che tentasse di far scoppiare uno cento mille Vietnam, ma lontano da Cuba.
Che Guevara era morto, dunque. Di questo dobbiamo essere tutti convinti, altrimenti la nostra storia non avrebbe senso. Sgombriamo il campo, allora, da tutte quelle credenze di chi dice che il Che sarebbe ancora vivo, un po’ come Elvis Presley e Marlin Monroe, magari che sarebbe il Comandante Marcos sotto mentite spoglie. Ecco, queste sono tutte balle. Che Guevara era morto e questo Fidel Castro lo sapeva bene, perché su quel nome aveva costruito un’intera retorica rivoluzionaria, i manifesti, i cartelloni, le scritte inneggianti alla resistenza e all’odio anti yankee. “Voglio essere come il Che!” dicono i bambini della scuola primaria e forse ci credono davvero, ma mio figlio non lo vorrei mai come il Che, mi piacerebbe che crescesse e si sposasse, facesse dei figli e avesse una vita normale, non che morisse in Bolivia per delle idee.
Fidel Castro aveva costruito tutto attorno alla memoria del Che, il combattente che non si arrende di fronte a niente, sin dal giorno del funerale solenne, della celebrazione in un fantastico bagno di folla, leggendo la lettera del vecchio compagno che salutava prima di partire per l’ultima avventura e augurava tutto il bene possibile alla rivoluzione cubana. Fidel superò se stesso quel giorno, fece piangere tutti di commozione, a un certo punto piangeva pure lui da quanto si era immedesimato nella parte. Adesso che era vicino a morire se ne ricordava bene e provava una punta di nostalgia per l’uomo che era stato, per l’oratore infaticabile e il combattente senza paura, per il modo in cui aveva sempre saputo trascinare la folla. Fidel si sentiva solo. Si stava avvicinando il Natale del 2009 e lui si sentiva sempre più solo. All’Avana il clima era abbastanza rigido, serviva il maglione per uscire di casa, ma lui non poteva farsi vedere in pubblico, se ne stava rinchiuso tra le quattro pareti della propria casa, quasi dimenticato da tutti, ogni tanto scriveva Riflessioni per il Granma, a volte non ci riusciva e se le faceva scrivere da qualche giovane comunista che conosceva bene il suo stile. Fidel era stanco e malato, adesso c’era il fratello al potere e lui mica si fidava tanto di cosa avrebbe potuto combinare, ma purtroppo il tempo passa, nessuno è eterno, neppure un uomo che aveva sempre sfidato il mondo. Fidel viveva appartato gli ultimi istanti della sua vita, ogni tanto riceveva qualche capo di Stato straniero, soprattutto Chávez, altre volte qualche scolaresca di passaggio, ma era pura coreografia, lui stava male, soffriva, sentiva che la morte era ormai vicina.
Un bel giorno, sebbene fosse la vigilia di Natale del 2009, Fidel lavorava alla prossima Riflessione da pubblicare sul Granma. Parlava dei blogger indipendenti, di quei ragazzacci che criticavano tutto anche se la rivoluzione li aveva allevati, nutriti, curati e aveva provveduto alla loro istruzione. Erano proprio degli ingrati, non comprendevano il valore della tessera del razionamento, l’importanza di una società comunista dove tutti sono uguali e combattono una battaglia infinita contro il nemico yankee. Era una giornata fredda, per come può essere fredda una giornata avanera, un po’ di vento che spirava dal mare, tante nubi nere in cielo, un orizzonte grigio, denso di pioggia. La sera si faceva sempre più cupa, gli ultimi ubriachi rientravano a casa dopo aver consumato la dose giornaliera di pessimo rum, i cani cercavano un riparo sotto i porticati per affrontare la prossima tempesta tropicale. Fidel componeva il suo articolo con la vecchia macchina da scrivere, non si era ancora adeguato alla modernità, continuava con i sistemi d’un tempo, avrebbero provveduto i giovani del partito a digitare telematicamente il pezzo per la redazione.
In quel momento entrò nella stanza Raúl. Il fratello minore alzò gli occhi timorosi verso di lui, una sorta di strano rispetto accompagnava sempre ogni rapporto con Fidel, come se lui fosse ancora un ragazzino e l’altro il fratello maggiore al quale rendere conto di tutto. Era sempre stato così in vita loro. Raúl succube, soggiogato dalla grande personalità del fratello. E adesso si trovava al comando, erede di un potere immenso che non era sicuro di saper gestire. Per questo chiedeva spesso consiglio a Fidel.
– Buon Natale, fratello – disse con un filo di voce.
– Buon Natale? – si stupì Fidel. – Ti pare il momento di pensare a sciocchezze come il Natale? Il nostro paese va in rovina, siamo in piena crisi economica, rischiamo di finire in mano agli imperialisti, ragazzi senza ideali lavorano per i servizi segreti nordamericani, vogliono distruggere il nostro sistema sociale… e tu pensi al Natale?
– Facciamo una pausa almeno oggi…
– Non eri tu il più comunista di tutti? E adesso pensi al Natale? A volte credo di aver affidato il paese a uno smidollato. Raúl, in momenti come questi bisogna tirare fuori gli attributi, mica pensare al Natale…
Raúl uscì dalla stanza a capo chino. Fidel lo rimproverava sempre e lui subiva molto la personalità del fratello maggiore.
Nel frattempo, l’oscurità della notte aveva conquistato l’intera città, coprendo d’una coltre nera strade alberate, piazzali immensi di stile sovietico e vicoli di periferia. Fidel si affacciò alla finestra, il mare si intuiva appena in lontananza, gli ampi porticati della strada sottostante fornivano riparo ai viandanti che temevano la pioggia, tanta gente rincasava in fretta, di sicuro tutti volevano festeggiare il Natale. A Cuba erano tornati di moda gli alberi di Natale, persino i presepi che venivano allestiti nelle chiese cattoliche, molte persone si scambiavano piccoli regali. Era cambiata la sua Cuba, non era più la terra di un tempo, dove certe manifestazioni di frivolezza borghese erano messe al bando. Fidel non ce la faceva più a contrastarle, aveva dovuto cedere, ma non avrebbe mai creduto di dover sentire uscire dalla bocca di quel fratello smidollato gli auguri per un buon Natale. Fidel lasciò cadere i tristi pensieri, tolse il foglio di carta dal rullo, mise da parte la macchina scrivere, si disse che era troppo stanco, avrebbe finito domani, adesso era tempo di andare a dormire, il suo fisico provato dalla malattia aveva bisogno di riposare. Fidel dormiva solo da un po’ di tempo a questa parte, non voleva neppure la moglie, preferiva la tranquillità di un letto da non condividere e il silenzio spettrale della camera all’ultimo piano di un appartamento dove lavorava in segreto. Nella camera campeggiava un ritratto di Che Guevara a grandezza naturale, Fidel lo guardò come ogni sera esprimendo un sorriso stanco che pareva dire: “Almeno tu sei morto…”. Il fatto strano, però, fu che il ritratto sembrò rispondere con uno sguardo accusatore, come se mormorasse: “Lo devo pure a te…”.
Fidel restò colpito da quella strana sensazione.
– Non è possibile. I quadri non parlano e non sorridono… –, mormorò.
E cominciò a prepararsi per andare a letto, tirando fuori il pigiama di lino che indossava ogni notte e che teneva ripiegato con cura sotto il cuscino. Fu in quel preciso istante che l’immagine di Che Guevara si staccò dal quadro e avvicinò a Fidel un dito accusatore. Fidel tremò di paura. Era impossibile che accadesse una cosa come quella, eppure la stava vedendo, aveva davanti ai suoi occhi la mano tesa di Che Guevara che indicava il suo volto.
– Dimmi che sto sognando. Dimmi che è tutto un incubo –, sussurrò.
– Non è un sogno, Fidel. Sono proprio io… –, rispose il corpo di quello che un tempo era stato Che Guevara e che adesso era solo l’immagine trasparente di uno spettro uscita da un vecchio quadro.
– Cosa vuoi da me? – balbettò Fidel.
– Sarebbe troppo semplice dire che voglio giustizia…
Fidel era sempre stato un uomo coraggioso ma non aveva mai dovuto vedersela con un fantasma. E poi quello era uno spettro speciale. Era il fantasma di Che Guevara, il suo miglior guerrigliero, l’uomo che l’aveva aiutato a fare la rivoluzione cubana.
– Siamo sempre stati buoni amici. Abbiamo cambiato il corso della storia, abbiamo costruito la terra che volevamo… – disse.
– Forse quando eravamo in Messico erano proprio queste le tue idee, magari pure sulla Sierra Maestra, ma quando sei andato al potere è cambiato tutto. Lo sai meglio di me. Ricordi gli amici di un tempo?
– Un rivoluzionario non ha amici, conosce solo compagni di lotta. I suoi amici sono compagni di rivoluzione.
– Non mi rubare le frasi, Fidel. Sei sempre stato bravo con le parole…
Fidel tremava di paura, forse per la prima volta in vita sua comprendeva cosa voleva dire trovarsi impotente di fronte a un pericolo, perché quella strana apparizione non poteva essere reale.
– Tu non credi alla mia presenza –, disse il fantasma del Che.
– Ti vedo con i miei occhi, ma non posso credere che tutto questo sia reale. Posso aver mangiato troppo, sofferto un disturbo di stomaco, può essere un incubo…
Il fantasma del Che cominciò a muoversi per la stanza come se fosse sollevato da un turbine di vento, avvolse il corpo di Fidel tra le braccia, lo spinse verso la finestra e lo schiacciò con tutta la sua imponenza. A un certo punto fece cadere la mascella verso il volto di Fidel, poi la riprese e se la piazzò di nuovo sulla faccia digrignando i denti in un sorriso maligno. Fidel comprese che quella visione era reale, purtroppo quel fantasma uscito da un quadro che era sempre stato appeso in camera era un problema imprevisto con cui fare i conti. Non bastavano quei dissidenti da quattro soldi che spedivano articoli per e-mail e che pubblicavano blog assurdi in tutte le lingue del mondo. No, adesso ci si mettevano pure i fantasmi del passato e tra tutti proprio il più scomodo…
– Ti sei convinto che sono proprio io, Fidel?
Fidel annuì con un breve cenno del capo. Non comprendeva il senso di quella assurda storia, ma doveva ammettere che era reale…
– Cosa vuoi da me?
– Voglio che tu comprenda dove hai sbagliato prima di fare le mia stessa fine –, disse il Che.
– Non capisco…
– Io sono costretto a vagare per terre e mondi sconosciuti. Non posso mai fermarmi, sono in preda a un vortice infinito che mi trascina da un capo all’altro del globo. Questa è la mia pena, ma non so cosa potrà capitare a te. Forse di peggio…
– Cosa abbiamo fatto per meritare una simile punizione?
– Strano che tu me lo chieda, Fidel…
Fidel ricordò d’un tratto la guerriglia in Bolivia e le ultime pressanti richieste d’aiuto inviate all’Avana. Lui aveva fatto finta di non vedere e di non sapere. Il Che sarebbe stato più utile da morto che da vivo.
– Mi hai trasformato in un simbolo, ma non mi hai difeso…
Fidel non rispose. Si tormentava nei ricordi. Vedeva volti di uomini e di giovani soldati che avevano fatto la rivoluzione partendo da una montagna infida e selvaggia. Vedeva donne che attraversavano la sua vita senza lasciare il segno. Vedeva un ragazzo assetato di potere che arringava la folla. Era il ricordo di quel che era stato.
– Fidel, abbiamo tradito troppa gente. Non siamo stati clementi con chi ci ha seguito e non condivideva le nostre idee. È stato troppe volte Natale senza che ci passasse per la testa di festeggiarlo.
– E allora? Cosa possiamo fare? – chiese Fidel con voce tremante.
– Fidel, la tua ora è vicina. Potrai salvare la tua anima soltanto se lo vorrai. Per me è tardi, ormai. Devo scontare la mia condanna e continuare a vagare per il mondo. Ho abbandonato la mia famiglia per andare a combattere. Ho lasciato soli i miei figli…
– Ti sei comportato da eroe. Hai seguito le tue idee…
– Non esistono idee per cui valga la pena morire. Ormai l’ho capito. Tardi ma l’ho capito. Esistono i piccoli sogni degli uomini, i desideri dei figli, la gioia di una famiglia riunita nella notte di Natale.
– Il Natale. Una sciocchezza consumistica. Un’invenzione del capitalismo borghese. Droga per il popolo dispensata dalla chiesa.
– È molto di più Fidel. Presto lo capirai. Il tuo solo modo di salvarti è attendere la visita di tre spettri che ti manderò. Sono i fantasmi del tuo passato, i ricordi di quello che sei stato, di cosa sei e di cosa potrai diventare. Ascolta le loro voci e comportati di conseguenza. Sei ancora in tempo per salvarti. Il primo spettro ti farà visita quando l’orologio segnerà il primo rintocco del mattino.
Fidel restò come interdetto. Il fantasma di Che Guevara riprese posto nel quadro e tornò immobile, come sempre era stato prima di quella notte assurda, con uno sguardo fiero da guerrigliero eroico, la divisa verde oliva, il fucile in braccio e il passo cadenzato verso un radioso futuro. Fidel non comprendeva se quel fantasma era svanito nel nulla o se aveva sognato tutto, ma era stanco e decise che sarebbe andato a letto senza farsi ulteriori problemi sulle strane visioni che l’avevano tormentato.
Alejandro Torreguitart Ruiz
L’Avana, 1 - 8 dicembre 2009
Traduzione di Gordiano Lupi
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L'AUTORE DEL RACCONTO nota bio
Alejandro Torreguitart Ruiz (L’Avana, 1979) esordisce in Italia con Machi di carta - confessioni di un omosessuale cubano (Stampa Alternativa, 2003), definito un delicato e intenso romanzo di formazione da Mario Fortunato su L’Espresso. Seguono: La Marina del mio passato (Nonsoloparole, 2004), Vita da jinetera (Il Foglio, 2005), Cuba particular - Sesso all’Avana (Stampa Alternativa, 2007), Adiós Fidel - All’Avana senza un cazzo da fare (Racconti 2003 - 2008) (Il Foglio, 2008 – 2ª edizione A.Car, 2008), Il mio nome è Che Guevara (Il Foglio, 2008 – 2ª edizione A.Car., 2009) e Mr. Hyde all’Avana (Il Foglio, 2009). Alcuni racconti di impronta politico-esistenziale sono stati pubblicati da quotidiani e riviste come Il Tirreno, Tellusfolio, Il Messaggero, La Comune, Container, Progetto Babele, L’Ostile e Happy Boys. Gordiano Lupi è il traduttore e il titolare per lo sfruttamento dei diritti sulle sue opere in Italia e per l’Europa.
Siti internet: Il blog di Alejandro e www.infol.it/lupi/alejandro.htm
L'AUTRICE DELLE ILLUSTRAZONI nota bio
Elena Migliorini è nata a Piombino. Pittrice e disegnatrice, da tempo si è affacciata sul panorama degli illustratori italiani della piccola editoria, ultimamente ha scoperto un altro meraviglioso ed esclusivo utensile: il computer, unendo così la sua passione per il disegno e la pittura alla grafica computerizzata. Cresciuta in una famiglia di fotografi professionisti si è sempre trovata in mezzo alle immagini. Ha frequentato il Liceo Artistico. All’età di venti anni si è iscritta ad una scuola per cartellonismo pubblicitario, la sua grande passione, finché non ha conosciuto Gordiano Lupi direttore editoriale della rivista Il Foglio Letterario di Piombino che gli propose di fare le illustrazioni nella sua rivista e poco dopo con l’apertura della sua casa editrice Edizioni Il Foglio la copertinista, illustratrice e grafica per i suoi libri.
«Sono ritenuta un'illustratrice dedita particolarmente al fiabesco. C'è da dire che se una volta uno fa bene una fatina, poi per anni ti chiedono fatine. Per cui avere un'inclinazione può diventare una trappola. Nel mio caso pur riconoscendomi in questo ruolo non sento del tutto esaurite le mie possibilità nell'editoria per ragazzi e per altri generi».
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elenasdesignd@libero.it