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L’arte di raccontare. Il racconto di Shéhérazade. Sinbdad il Marinaio. A cura di Anna Lanzetta 3
16 Dicembre 2009
 

Quale suono è più dolce e avvincente della voce umana? Ed è su questo strumento, mirabile nelle sue metamorfosi, che fa leva Shéhérazade, per incuriosire il re fino a farlo desistere dalla sua crudele decisione.

È indiscusso il fascino del racconto in cui la parola si veste di mille  colori e di  suoni melodiosi, creando nella nostra mente arabeschi di altri mondi, legati a un tempo infinito, che si svolge nella memoria, come ricami intessuti di parole che l’abile ago traccia fino a creare un racconto che un filo invisibile lega al precedente e prepara il seguente. Storia infinita del mondo di cui la fantasia è il tassello cardine per partorire pensieri. E sullo scenario di multiformi colori scegliamo quelli più adatti alla nostra storia, perché nulla è casuale; forme, linee, colori e suoni corrispondono alla nostra sensibilità, all’umore del momento, simboli di  pensieri che si mutano in parole, parole, che combinate formano righe, file, tratti, segmenti pregni del nostro sentire, impressi su un foglio o su di una pagina web.  Il programma che mi ha guidato nella composizione di Sheherazade, dice Nicolaj Rimsky-Korsakov nelle sue memorie, consiste in episodi separati e senza alcun legame tra di loro: il mare e il vascello di Sinbad, il racconto fantastico del principe Kalender, il figlio e la figlia del re, la festa di Bagdad e i vascelli che si infrangono su una roccia, basta scegliere uno di questi elementi per creare intorno ad esso una storia con  ambienti, personaggi, situazioni; tutto nascerà come magia e “maga” sarà la “fantasia”.

La mente è un fiume in piena e le parole sono capaci di tradurre ogni pensiero, basta combinarle e la magia di realizzare qualcosa di meraviglioso si realizzerà. Non stiamo forse aspettando la notte magica quando la stella brillerà fulgida e il cielo si inonderà di luci? La magia è nella  penna o nel tasto di chi vorrà creare. 

Shéhérazade riprende  il racconto.

Non  sentite la  musica ? La sua voce è affidata al violino, vibrante, sognante  e raffinata. Ascoltiamo il racconto e poi sveleremo il segreto di questa voce.

A. L.

…Nella più calda cordialità Sindbad il Marinaio riprese il suo racconto.

   

II

 

 «Trascorso qualche tempo, venni nuovamente colto dal desiderio di viag­giare. M'imbarcai. Il viaggio procedeva tranquillo ed io avevo già compiu­to buoni commerci nelle varie isole in cui avevamo fatto scalo. Ma un giorno, approdati in un'isola deserta e molto bella, mi rilassai al sole su una spiaggia e presto mi addormentai. Non mi accorsi che intanto la nave levava l'ancora e, durante quella manovra, nemmeno il capitano aveva no­tato la mia assenza. Quando mi ridestai, mi ritrovai solo e disperato. Dopo il primo momento di sconforto, perlustrai l'isola e scoprii che vi era un so­lo strano edificio, una sorta di cupola bianca liscia e senza porte. Non riu­scivo a comprendere. Mentre tentavo, senza successo, di giungere sulla sommità della cupola, vidi oscurarsi improvvisamente il cielo. Non si trattava dell'oscurità della notte, ma della gigantesca ombra che le ali di un mostruoso uccello, il rokh, gettavano sull'isola. Improvvisamente mi resi conto che quello che vedevo non era un edificio, ma un gigantesco uovo. Ero terrorizzato e nello stesso tempo pensai che quell'uccello poteva resti­tuirmi la libertà. Giunto sul suo nido, l'uccello si mise a covare l'uovo. Io mi ero prudentemente nascosto e, senza farmi accorgere dall'animale, mi legai all'enorme artiglio del rokh in modo che mi potesse trasportare via da quell'isola al prossimo volo. Infatti all'alba il rokh volò via e presto raggiunse un'altra terra. Mi liberai allora senza che il mostro si accorgesse di nulla, ma mi ritrovai in una situazione forse più difficile della preceden­te. Ero finito in uno stretto canalone racchiuso tra alte montagne. Impossibile scendere o risalirle. Mi rimisi a perlustrare la zona e vidi ch'era una valle piena di diamanti e di serpenti. La notte mi rifugiai in una grotta per proteggermi dai giganteschi serpenti che cercavano di darmi la caccia. Lì terminai anche le scarse provviste che ero riuscito a conservare. Al matti­no, uscito dal mio rifugio, mentre camminavo tentando invano di trovare una via d'uscita, vidi piombare dal cielo un grosso pezzo di carne. Mi ven­nero in mente i racconti di alcuni mercanti di diamanti che avevano adotta­to questo metodo astuto per recuperare le pietre preziose. Non potendo scendere in questa valle impervia, gettavano dei pezzi di carne in modo che i diamanti vi restassero infilzati e attendevano, quindi che gli avvoltoi, attirati dall'odore, li recuperassero e li portassero ai loro nidi. Poi, spaven­tando questi uccelli, potevano tranquillamente recuperare i diamanti senza correre il rischio di precipitare nel burrone. Allora raccolsi le più belle pie­tre che avevo in abbondanza a mia disposizione e mi legai a un pezzo di carne. Attesi che i rapaci  arrivassero. Un grosso avvoltoio, afferrando il pezzo di carne, lo portò nel suo nido e, appena venni depositato, sentii un gran clamore e grida forti. Erano gli uomini che spaventavano gli uccelli. Subito venni salvato. I mercanti ascoltarono stupefatti la mia avventura, mi diedero conforto e mi offrirono posto sulla loro nave. Arrivai nel Borneo, dove barattai e commerciai fruttuosamente. Feci quindi un tranquillo ritorno a Bassora. Raggiunsi Bagdad e mi resi conto che la mia già enorme ricchezza era raddoppiata».

Al termine del racconto, Sindbad ordinò di offrire cibo e bevande ai suoi ospiti e di fare musica. Poi, congedando il Facchino, gli offrì cento monete d'oro, rinnovandogli l'invito per il giorno seguente per ascoltare il suo ter­zo viaggio.

  

III

   

 

«Dopo essermi goduto soddisfazioni e ricchezze, venni di nuovo preso dal desiderio di viaggiare.

M'imbarcai e affrontai l'Oceano, vendendo e comprando mercanzie di iso­la in isola. Ma un giorno la nave venne colta da una violenta tempesta e perse la rotta. Il capitano della nave si rese conto della gravità della situa­zione, perché i venti fortissimi ci stavano portando verso l'isola degli uo­mini-scimmia. In men che non si dica venimmo circondati da queste orride creature, che salirono a bordo e ci costrinsero a viaggiare e ad approdare su un'isola. Gli uomini scimmia s'impossessarono della nave piena delle nostre ricchezze e si allontanarono. I mercanti, senza sapere minimamente dove fossero finiti, si misero a perlustrare l'isola e trovarono un grande pa­lazzo. Ahimè, presto scoprimmo che il bell'edificio era abitato da un moro gigantesco e cannibale che uccise il nostro capitano, per cibarsene sotto i nostri occhi. Dopo aver assistito a questo orrore, approfittammo del riposo del mostro, per iniziare di nascosto a costruirci rapidamente delle semplici zattere per poter fuggire. Nel frattempo altri compagni subirono la stessa triste sorte del capitano. Arrivò il giorno propizio e, con una manovra di­sperata, riuscimmo ad accecare il carnefice e a prendere il largo sulle no­stre zattere. Venimmo inseguiti dai tre fratelli del gigante, che scagliarono verso di noi enormi macigni. Miracolosamente riuscimmo ad evitarli e ad approdare su un'altra isola sconosciuta. Lì, stremati, ci addormentammo. Nella notte, un terribile, enorme serpente divorò uno dei miei compagni. Per evitare il mostruoso rettile, la notte seguente io e un altro mio compa­gno salimmo su un albero. Ma anche il serpente salì sull'albero e, raggiun­to il mio compagno, lo ingoiò. Il giorno seguente, m'ingegnai a costruire una sorta di guscio protettivo fatto con rami d'albero, in modo da impedire a quella bestia di divorarmi. Per tutta la notte il serpente tentò di raggiun­germi, ma la mia armatura glielo impedì e la bestia si allontanò sconfitta. All'alba vidi apparire una vela all'orizzonte. Feci segnali disperati e i ma­rinai mi accolsero a bordo. Il capitano mi propose un lavoro: vendere le mercanzie di Sindbad il Marinaio di Bagdad, che due anni prima era mi­steriosamente scomparso. A quel punto, felice per questa incredibile circostanza, offrii le prove d'essere l'uomo che credeva morto e mi feci ricono­scere. Così rientrai in possesso delle mie ricchezze e ripresi a fare i miei commerci. La nave raggiunse Giava, dove acquistai nardo, chiodi di garo­fano, pepe, cinnamomo e canne di bambù. Facemmo scalo a Bassora e presto raggiunsi la mia Bagdad. Avevo decuplicato le mie ricchezze ed ero risoluto a non partire mai più. Potevo vivere nell'ozio e negli agi ed essere munifico con doni e ricche elemosine».

Il Marinaio concluse così il racconto del suo terzo viaggio e al termine della ricca cena donò cento monete d'oro al Facchino, invitandolo ad ascoltare il racconto del suo quarto viaggio il giorno seguente.

  

IV

    

«Trascorsi un lungo periodo a casa mia, ma incredibilmente mi riprese l'a­cuto desiderio di ampliare le mie ricchezze e di ripercorrere i mari. M'im­barcai con le mie mercanzie. Dopo pochi giorni, una tempesta di inaudita violenza spezzò l'albero maestro della nave e tutti i passeggeri vennero ca­tapultati in mare con il carico e le provviste. M'aggrappai disperatamente a un relitto, insieme ad alcuni mercanti. Per due giorni restammo in balìa delle onde. Poi la corrente ci portò sulla spiaggia di un'isola che sembrava deserta. Recuperate le forze, ci mettemmo subito alla ricerca di cibo, poi ci addormentammo sulla riva del mare. Dopo tre giorni iniziammo a perlu­strare i dintorni e scorgemmo un'abitazione. Mentre ci avvicinavamo ve­demmo uscire da quella casa dei mori. Questi ci circondarono e ci costrin­sero a seguirli. Ognuno di loro s'era impossessato di uno o più mercanti. Io, insieme ad altri cinque compagni, finii nelle mani di un uomo che sem­brava importante. Venimmo condotti nelle loro abitazioni. Ci offrirono delle erbe da mangiare.

Mentre i compagni affamati mangiavano, io diffidai e senza farmi accor­gere non mangiai nulla.

Poco dopo vidi l'effetto che quell'erba aveva sui miei compagni: essi era­no come inebetiti e privi di volontà. Intanto i mori continuavano a farli mangiare e sembrava che il loro appetito invece di diminuire aumentasse sempre di più. Io continuavo a non mangiare. Nel frattempo notai che vi erano altri prigionieri ed erano tutti grassi. Scoprii che il re di questo popo­lo si cibava di carne umana. Continuando a mangiare smodatamente, i pri­gionieri diventavano pronti per essere cucinati. Io invece dimagrivo a vista d'occhio. I mori, vedendomi così, pensarono che fossi ammalato e mi tra­scurarono. Approfittando di questa situazione, mi allontanai fuggendo il più lontano possibile. Mentre cercavo di raggiungere il mare, incontrai un vecchio malato che, vedendomi, capì la situazione e mi consigliò di prendere una certa strada per trovare salvezza. Seguii il suo consiglio e cammi­nai per sette giorni e sette notti. Finalmente incontrai degli uomini, mer­canti intenti a raccogliere pepe nero. Venuti a conoscenza della mia situa­zione, mi accolsero tra loro e mi fecero imbarcare sulla loro nave. Mi con­dussero nel regno dove abitavano e mi presentarono al loro sovrano. Il so­vrano mi ascoltò e mi aiutò. Presto conquistai la sua fiducia e il re mi elevò a suo dignitario di corte. Abitando in mezzo a quelle genti, notai che cavalcavano ignorando del tutto l'uso della sella, delle redini e delle staffe. Mi misi a costruire queste cose e insegnai loro l'uso di questi mezzi. Pre­sto ne ricavai una bella somma. Il re era entusiasta di me e della mia espe­rienza e, per gratificarmi, mi offrì in sposa una donna bellissima e ricca. Vissi felice per parecchio tempo, amando sinceramente quella sposa e pen­sando che, se avessi voluto tornare a Bagdad, avrei potuto tranquillamente divorziare. Ma un giorno scoprii un'altra consuetudine di quel popolo: se uno dei coniugi moriva, l'altro era costretto a seguirlo nella tomba, sepolto vivo. Per una strana sorte, la mia giovane moglie morì improvvisamente. Secondo le usanze, la bella sposa fu deposta nella tomba adornata di tutti i suoi più preziosi gioielli e il suo corpo venne avvolto dai tessuti più pre­giati. Io la dovetti seguire, accompagnato soltanto da poche provviste. Mi ritrovai rinchiuso in un profondo pozzo, dove vidi tanti cadaveri coperti da stoffe e gioielli preziosissimi. Avidamente raccolsi quelle ricchezze, poi subito mi resi conto che non sapevo come uscire da lì. Stavo finendo le mie provviste ed ero disperato, quando vidi un animale scappare attraverso uno stretto cunicolo. Lo seguii. Riuscii a trovare la via d'uscita e a portar via tutti i gioielli sepolti in quel pozzo. Attesi sulla riva del mare che pas­sasse qualche nave. Passarono così varie settimane. Per procurarmi il cibo, tornavo nel pozzo, uccidevo qualche vivente sepolto vivo e m'impossessa­vo delle sue provviste. Finalmente arrivò una nave e io dichiarai semplice­mente d'essere un mercante naufrago e che quello che avevo con me era poca parte di quel ch'ero riuscito a recuperare delle mie mercanzie. Il ca­pitano mi offrì il salvataggio, secondo le leggi del codice del mare. Rag­giungemmo le isole Cocos, poi Ceylon, ed arrivammo a Bali, dove condu­cemmo importanti scambi commerciali. Tornai dunque a Bassora e rag­giunsi Bagdad.

Rientrai in famiglia cento volte più ricco e dichiarai a me stesso d'averne abbastanza di viaggi. Per un lungo periodo di tempo mi riposai, mi divertii e mi dedicai a tutto quello che può dare piacere».

Come le altre volte, Sindbad il Marinaio, dopo una magnifica cena, con­gedò il Facchino donandogli cento monete d'oro e invitandolo a tornare il giorno seguente per ascoltare la narrazione del suo quinto viaggio.

Cari lettori, questi racconti ci richiamano alla mente altri viaggi avventurosi come “Marco Polo” e l’ “Odissea” e nello specifico l’incontro-scontro di Ulisse e Polifemo.

Shéhérazade continuerà a raccontare e noi nell’attesa ci rileggiamo il “fatto” di Polifemo o se preferite qualche episodio del meraviglioso “Marco Polo”.  (A. L.)

 

   

 

Alla prossima puntata…

 

 


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