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Archeologia editoriale. Beppe Costa: Romanzo siciliano (Pellicanolibri, 1984) 2
07 Gennaio 2010
 

A mia sorella Adelaide

 

PARTE PRIMA

 

1

 

Lo sparo. Il giorno, come un altro. Marco ci rifletteva già da molti anni.

Si era documentato, informato, ne aveva parlato con qualcuno, altri ne avevano parlato con lui. Aveva cercato un metodo meno violento, forse, e per questo, forse, ne aveva ritardata l’esecuzione. Aveva infine deciso evidentemente per quello. Uno sparo. In bocca.

Sul momento, era sicuro, avrebbe dovuto sentire qualcosa, un dolore e che, forse, avrebbe dovuto rifarlo. Ci pensò più volte. Guardò l’orologio sul tavolo, pochi secondi e l’urto della pistola che cadeva.

Cominciò a ricordare.

 

Ci aveva pensato a lungo: sessantasette anni prima di decidersi a scrivere. Scrivere il suo romanzo con tutta tranquillità (e lucidità) tanto nessuno glielo avrebbe pubblicato. Non sarebbe mai stato un caso letterario. E poi, non ce n’erano più di casi. Mai? Almeno finché non lo avesse scritto a venti o trent’anni. Poi la paura di dire, di inventare bene, dialogare lui, Marco, protagonista con il proprio autore, senza che scambiassero le sue ‘belle’ pagine con memorie personali: insomma questo non sarebbe stato il diario che si chiude con il suicidio del protagonista.

 

Tanti scrivono il diario. Quasi tutti poi mischiano film a fatti realmente accaduti loro. Questo no. Checché ne potesse pensare Sciascia della Sicilia, questo sarebbe stato un romanzo totalmente inventato. Senza mafia né potere occulto e senza le solite ‘cose’ nostre. Anche i luoghi, gli anni e le città sarebbero stati accuratamente occultati.

  

Quell’anno di ritorno da Roma aveva giurato che non ci avrebbe rimesso più piede. La sua città natale era adorata ed era quella la sua terra, il suo porto di mare e di montagna (Etna). Non si sarebbe più mosso. Quello che si poteva fare altrove si doveva poter realizzare anche lì. Anzi doveva proprio realizzarlo nella città che amava. Amava?

Era proprio quello il punto. In quella città si amava meglio. Cioè si era più sicuri. Cioè ancora, tu avevi una ragazza e quella era la ‘tua’ ragazza. A Roma, a Milano no, ancora no. La sua città era proprio provinciale e qui Marco poteva esser l’unico per lei. Gli avevano insegnato, si potrebbe dire meglio, inculcato, sin dall’età più tenera che doveva essere 'siciliano’.

A Roma, semmai, bisognava andarci per le avventure e così aveva detto a se stesso la prima volta che, diciottenne, ci andò.

Appena arrivato notò subito sin dall’uscita della stazione Termini che tutte avevano un bel viso da passeggio (che da noi si usa solo la domenica ore 17/18, in estiva), una bella faccia e belle cosce comunque più visibili. Solo vent’anni dopo si rese conto che erano tutte, o quasi, siciliane. Le romane giovani invece erano magre, con facce d’ufficio e da supermercato e con grandi occhiali. Ma per l’età che aveva Marco andavano molto bene, anziché belle e buone, preferiva di già le donne ‘interessanti’. Poi, lui, brutto, corto e grasso, cominciò (bisogna dire subito) ad attrarre solo superati i quarant’anni. Ma questo era merito di Michel Piccoli, Noiret, Trintignant (solo per andare in Francia) che sapevano dare fascino ai quarantenni o, forse non è così, il merito va al tennis che in questi ultimi tempi si è sviluppato in modo impressionante, aumentando il numero degli infarti e diminuendone l'età.

 

A questo punto però bisogna ricordarsi la trama, non si scrive un romanzo senza trama, la gente lo butta via solo dopo qualche pagina, non si lascia negli scaffali e non rimane ai posteri. Con la trama, specie se si sviluppa in modo lineare, corrente (anche se complicata) sono disposti a leggere migliaia di pagine, a telesceneggiarlo. Così cosa ci sceneggiano? Bisogna prevedere ogni cosa, come è accaduto a un mio amico romano e scrittore: “alla RAI vogliono un progetto, cretino però, più cretino di quelli brasiliani per concorrenza alle tivvù private” e ci sta tentando, ma si sa, per scrivere progetti cretini occorrono persone intelligenti e viceversa.

Però questo romanzo resta romanzo e oltretutto comincia pure male, col protagonista che si spara in bocca e questo è poco accettabile, bisogna mi ricordi di cambiare l’inizio. Il fatto è che molti autori, forse come me, quando scrivono non riescono a ‘limare’, a rivedere cioè, o ad aggiungere. Scrivono così distratti che spesso dimenticano i personaggi lasciandoli in qualche capoverso e tu, o lettore, non sai che fine abbiano mai fatta. Ma io non sono di questi e conoscendo il mio carattere e i miei difetti dunque faccio meglio, prima di dimenticarlo, senza farlo notare, a piantare qui a pagina quattro il mio Marco. Pagina quattro per intenderci del dattiloscritto, chissà poi che pagina sarà a stampa, col frontespizio, la prefazione, le pagine bianche. O forse no, avrò piantato tanta gente che non posso piantare il mio personaggio principale proprio qui, all’inizio. Meglio riprendere storia. Anzi prima bisogna dare un titolo: ‘Romanzo qualunquista per compagno e per fascista’. Va bene così!

 

Andare a Roma. Andare sempre a Roma. La capitale. E tutti i meridionali andavano a Roma.

Era poi giusto? Questa città puttana per forza. Puttana perché costretta. E noi meridionali con tutte le raccomandazioni e le speranze sulla ‘questione meridionale!’ Avrebbero fatto meglio a spostare i ministeri. Trasferirli quantomeno a Cosenza, accorciare le distanze. Ma per i siciliani come Marco c’era anche Palermo da visitare, con i suoi assessorati, dove era andato per anni.

Palermo è a soli duecento chilometri da Catania eppure sembra lontanissima: duecento chilometri di autostrada noiosa e per una buona parte soprelevata, sembra d’essere sul treno. Curve larghissime per evitare danni alle colture dei proprietari terrieri. La più lunga soprelevata d’Europa. Dopo due ore sei lì, in uno dei tanti palazzi con migliaia di impiegati che ‘dicono’ esserci.

 

Cinque anni e Marco non si perdeva più in quei deserti corridoi e stanze che si sviluppano su sette piani, oltre gli scantinati, dove tre anni prima aveva ‘prelevata’ la macchina per scrivere. L’aveva fatto veramente per la cultura, unico (purtroppo)suo interesse. Sapeva infatti solo scrivere a macchina e quella mattina la prese insieme a fogli di carta intestata e timbri perché non trovando né uscieri, né funzionari, né tantomeno politici, si incazzò per il viaggio che sarebbe altrimenti risultato inutile e ancora di più pensando a quanti soldi ci volevano per tenere in piedi quella struttura e quanti a lui ne sarebbero occorsi per la macchina.

Aveva deciso di assumersi alla Regione Siciliana utilizzando carta intestata e timbri (cosa che poi era stata fatta da altri) ma non ebbe il coraggio o, forse, non voleva appartenere a quella stessa categoria. Chissà come sarebbe andata! la sua vita sarebbe stata senza dubbio diversa.

Questo furto (il primo che, come il primo amore non si scorda mai) non poté essere più ripetuto. Tutti gli uffici ormai si erano modernizzati con attrezzature elettroniche che pesavano un accidenti.

Poi conobbe vari dottori e dottoresse, chiese, richiese quindi pretese, s'incazzò e per due anni non poté più andarci.


Aveva quasi rinunciato allo scrivere e al teatro quando ebbe la possibilità di ritornarci con un amico che aveva un amico parente di un parente di un assessore.

Andò con la valigia carica di fogli e appena seduto all'altra sponda dell'enorme tavolo li tirò fuori tutti, sparpagliandoli davanti al dottor X (per la verità si chiamava G. ma è meglio per i lettori e la loro memoria chiamarlo X). Il politico fece doveroso atto di rimescolare, come a voler tentare di leggere qualcosa, quindi rivolto a Marco:

Mi dica.

Marco rispose: – Dice a me? –, perplesso perché X era strabico e guardava il mio amico Giovanni (non essendo politico si può citare per esteso).

X ribatté: – Dico a lei. Cosa posso fare per aiutarla? Sa, io non credo di potere fare niente. Sto anni interi qui cercando di aiutare la gente che mi chiede la luna.

Marco rispose impacciato, a monosillabi, quindi parlò velocemente per sei minuti buoni, poteva anche parlare ‘italiano’ per altri seimila ma, visto che X si era portate le mani alle tempie ed era impallidito, si bloccò.

Lo guardò, si guardarono. A questo punto (data l'intensità) avrebbero dovuto amarsi. E invece quello fa:

Non ho capito nulla. Vede, nell’ottica delle linee parallele, bisogna trovare una convergenza che si intersechi nell’attuale tunnel, ne concretizzi una linea strategica per uscirne e ne sviluppi un conseguente programma di intervento da seguire con estrema fermezza. In ogni caso e in altre parole., occorre che si attui una comune strategia d’intenti affinché la problematica del bisogno cui ci si trova di fronte converga su di una linea comune e pertanto parallela.

Marco divenne rosso come un pomodoro. Il suo ottimo dieci in italiano per tanti anni di seguito non serviva più. Al signor X e a lui avevano insegnata una diversa lingua, tentò la replica, ma gli uscì di bocca solo: – ...ma...

Il politico, ripreso colorito (per la vittoria conseguita), tutto soddisfatto gli disse di non preoccuparsi e tirato fuori un biglietto da visita, scrisse, anzi vergò velocemente ma con scrittura pittorica, il seguente messaggio:

Caro Giovanni XXIII,

ti mando il mio carissimo amico (grande scrittore) Marco D ‘Antonio, aiutalo in tutti i modi possibili e immaginabili.

Te ne sarò grato

tuo X (G.)

Marco prese il biglietto, lo lesse rapidamente (si sentì preso per il culo) e fece tremante:

E dove lo trovo?

A Roma, naturalmente – rispose X sicuro di sé. – Basta lei vada in Vaticano e lo troverà sicuramente. Gli ho fatto tanti favori e vedrà anche lei sarà favorito. – Porse la carnosa ‘mano: – sempre a disposizione.

Marco pensò ancora una volta: “Devo cambiar partito o devo farla finita”.

 

2

 

Marco adesso moriva, l’orologio continuava anche se più lentamente a battere, ma solo per alcuni istanti, poi avrebbe ripreso, malgrado il dramma, ad andare come prima. Così come la mamma, gli amici, i parenti, i conoscenti.

Tutto ciò lui lo sapeva perfettamente. E allora. Allora forse un po’ di stanchezza, un esauri­mento, il lavoro... Eh, ma se tutti quelli che hanno l’esaurimento fanno bumm, stiamo freschi! E poi si muore solo autonomamente: c’è il fegato, il cancro, l’incidente, il caso e la necessità qualcuno che più bisognoso di te, ti punta addosso l’arma, un minimo gesto e sei fottuto. Per non parlare del neutrone.

 

Allora forse a Marco tutto ciò non stava bene, voleva fregarsi da solo, senza che Reagan ci entrasse in alcun modo, che almeno potesse decidere questo.

Non era un gesto così abnorme, ce n’erano stati tanti prima di lui. E non solo poeti o pittori gli ispiravano ‘l’insano gesto’. Si era documentato bene, non erano solo gli artisti a farsi fuori - certo quelli fanno più notizia perché la gente comune pensa: ma che gli manca? E gli altri? tanti poverac­ci che non possono permettersi neppure di suici­darsi. Un tale, aveva letto, si era chiuso ermetica­mente in una stanza da bagno zeppa di fiori, ma occorre tempo e fantasia e senso artistico, ma del tempo e della fantasia, nonché del senso artistico Marco non voleva più saperne.

Il desiderio di realizzarsi è solo il desiderio di non morire. Ma si muore. E il tuo suicidio? Un gioco. Vedere l’effetto che fa.

 

Dove si è fatto, come si è fatto, da quali inse­gnamenti scaturito?

Cercava, in qualche pagina d’autore, raffronti o storie d’ottocento. Eppure ogni cosa gli era passa­ta accanto, senza neppure tentare di trattenerla, imparata a volte a memoria. Nessuna maniera utile del fare. Di fare nel senso comune di costruire. Tutti e in ogni senso costruiscono. Ecco perché i luoghi sono così sfatti, deteriorati, inquinati. Ed è per lo stesso motivo che non riesce, non riesce a descrivere se non:

Svegliandomi all’alba vedo dalla finestra ca­dere i fiocchi di neve bianca” (stavo per scrivere d’avena). Come si fa qui. a Catania, a scrivere di fiocchi di neve alla finestra? Sono poi fiocchi? potrebbero essere finocchi di neve. Ma è solo spaz­zatura buttata a quintali dai balconi della gente civile.


Così per ogni cosa.

Lui?

Un’esperienza. Dei padre e della madre, anzi (forse), un’esperienza del padre che voleva sperimentare la madre. Dovettero sposarsi. Si pentirono entrambi. Si separarono. Ed erano altri tempi, tem­pi duri!

A volte dice ‘non so’, vede, canta, balia, suona o tace e poi sempre ‘non so’. Come si fa così adulti a non sapere. La gente sa sempre, se non sa si informa. A cosa servono i giornali, i servizi tivvù, gli sceneggiati, la pubblicità, le enciclopedie, i computer? Basta, magari appena nato, schiaffare il pic­colo davanti lo schermo e riprenderlo soltanto quando è pronto per il cimitero.

Marco invece no. Lui guarda solo i film france­si, ascolta canzoni francesi, mangia francese: non parla francese! In mezzo a tanti italiani che parlano inglese lui ama francese, senza la lingua, è un raffinato, come lo zucchero, anche perché è un tipo dolce. A volte si sente spinto, tal’altre sottovuoto, insieme sottovuoto spinto come il caffè (dolce). Va rapido come un espresso. Ma non è riuscito a realizzarsi, concretizzarsi, come si suol dire. Tutti glielo dicono in rimproveri. Vendi parole! È povero da far schifo.


Ogni cosa da tanto tempo l’aveva preso come gioco, anche le parole inseguite le une sulle altre, procedimento che si è sempre dimostrato assurdo e suicida. Quale verso giustificare se non sempre la frase precedente e l’altra ancora, all’indietro, all’in­finito? E questo più d’ogni altra cosa lo faceva star male. Nessuno riusciva a non farglielo notare. D’al­tronde quando parlava, anzi quando c’era lui, gli altri a stento potevano pronunciare qualche mono­sillabo.

Eppure pensava, in tempi non molto lontani da quel giorno, che il silenzio fosse orrore, finché solo, negli ultimi tempi, quando ormai aveva rac­contato tutto a tutti, impazzì coi propri pensieri che troppo contrastavano fra loro.

Sempre più frequenti i suoi mali, di gola, di schiena, di testa, di denti erano descritti come fatti eccezionali, dimenticava i malesseri comuni all’in­dividuo.

Marco per fortuna odia il mare, quindi non soffre il mal di mare. Avrebbe voluto tanto fare il poeta, sin da piccolo consumava tanta carta come tutti i poeti, ciò che giustifica la carenza del pro­dotto nel nostro paese. Però tiene ancora tutti quei fogli a casa conservati, non li ha mai fatti vedere a nessuno. Ogni sua poesia è custodita, ogni piccolo foglietto, sin da quando aveva otto anni, non sì sa mai. Accadono grossi scoop in età senile... Non aveva mai spedito nulla. Uno sconosciuto. Uno che non conta insomma. Eppure non fa che conti: quanto per respirare, per mangiare, bere, amare, decidere, e quanto costava quella inutile vita al governo, già tanto inguaiato per i fatti suoi. Marco sa solo che non sa. E poiché nel sapere sta il potere, lui non può e se non può non fa e se non fa almeno non tace. Con tutto il tempo a disposizione...

È insomma un pesce preso al laccio che sente il soffocare alla gola, lento e inarrestabile. Come la fila d’auto che l’accompagna all’uscita e al ritorno a casa. Come un funerale. Trecentomila auto fanno come lui, poi, a volte, si pente e rientra subito nella sua stanza, convinto che, nessun fatto importante comunque sarebbe potuto accadere. La sua casa: una stanza, tre muri, il triangolo della morte.

È unico. Sfido, una stanza a triangolo con la punta verso il cesso come ad indicarlo. Va a vomi­tare nelle impressioni di collasso. Eppure è lì, dico­no, nel passato, nelle origini, nelle radici insomma.

Marco però non ha radici. È mica un albero! Sua nonna non c’entra, non è come le nonne di Amado o Márquez. La sua nonna era ben altro! La sua nonna comunque ‘era’, cioè non è, segno che è morta, quindi non ‘era’ ora.

Quando morì fu un giorno nero. Fine della polpetta cucinata dalla nonna nella buona tradizio­ne sicil-indi-gente/gesto. E adesso? si disse. Che fare? (rilesse Lenin). Nessuna risposta. Gli diedero in famiglia diversi incarichi mortuari (che tutto sommato gli fruttarono qualche spicciolo), c’era il testimonio di morte e non lo sapeva, l’accompa­gnamento funebre lungo, lunghissimo. C’erano da fare trentacinque chilometri. Per i ‘funeralati da mafia’ era lungo solo all’inizio, poi, tutti a casa, di fretta, la televisione riprendeva quasi sempre l’in­terno della chiesa, la famiglia, i politici, i bancari. Marco ripensò al suo matrimonio (in antico paese) e per un momento ebbe paura che avrebbe dovuti farli tutti a piedi (o a passi di mazurka, come s’usa dire da noi) i chilometri. Dal tipografo scoppiò a ridere. Dovette far stampare un biglietto indegno e falso: “Si è spenta improvvisamente all’età di ot­tantadue anni la signora eccetera, con la serenità dei conforti cristiani”. Si era spenta (perché fulmi­nata? non gli pareva), improvvisamente? (ottanta-due anni!) serenamente? Era di un incazzato terri­bile perché non aveva potuto vedere sposati i figli dei nipoti.


La nonna di Marco aveva sempre cercato di rimandare il proprio impegno inderogabile, ovverossia la morte: prima voleva vedere le figlie sposa­te, le riuscì, poi voleva un nipote maschio e anche questo arrivò secondo desiderio, poi tanto, ma tan­to le sarebbe piaciuta la nipote femmina, come sopra, quindi volle vedere la figlia più piccola , emigrata in America, come si era sistemata. La vide: si era proprio ben sistemata (non come Mar­co, di cui appunto è occorsa la narrazione). ‘Dove­va’ assistere al matrimonio del figlio della figlia maggiore, poi, diceva, ma sappiamo che era nel falso, sarebbe morta contenta. Infatti ricominciò subito col desiderio di vedere maritata la figlia della figlia mediana, visto che c’era ed era in età da farlo. Poi il piccolo, lo scavezzacollo (cioè Mar­co) si sposasse lui, così irrequieto, sarebbe (di nuo­vo) morta contenta. Iniziò quindi il turno dei figli del grande, della mediana, del piccolo, e così andò avanti per un pezzo, desiderio dopo l’altro, finché per fortuna, dati i tempi, la gente non voleva spo­sarsi più e quindi non volendosi sposare la fecero morire senza alcune ‘ultime soddisfazioni’.

Così si spense la nonna di Marco e mentre lei si spegneva, l’Enel cominciò ad elevare enorme­mente le tariffe, tant’è che molta gente cominciò ad evitare di dare così spesso alla luce. Più l’Enel aumentava, più l’incremento demografico rallentava. La fine degli insegnanti, trentadue per una classe di dodici, tutti: maestri, professori, docenti universitari, fecero i bagnini, i meccanici, i vigili urbani e in genere gli impiegati al comune, perché, come si suol dire: ‘al comune mezzo gaudio’. E le ferite non risultarono così insanabili.

Ma questo comunque non è un libro di econo­mia, né tantomeno di sociologia. Sennò dovremmo parlare anche della Sip, della Fiat, di Gelli, delle Banche, cose che non c’entrano in una storia come questa che non è di questi tempi, né di questi luoghi, né tantomeno una storia vera, anche se vi si innescano sospettabili episodi di raffronto e qual­che dubbio viene. È umano.

Anche nelle storie inventate comunque la gen­te nasce e muore e -non essendo questo neppure un libro di fantascienza è chiaro che anche qui, malgrado l’autore non riesca a tenere le fila (o la trama) di un solo personaggio, la vita continua... una burla, la gente nasce e muore e la vita conti­nua. Ed essendo questa una pagina dai risvolti umani bisogna scriverci su qualcosa che vi faccia riferimento.

Begin, Reagan, Arafat, Khomeinhi. Continua­vano a vivere mentre altri, ma tanti altri per loro e da loro venivano uccisi, massacrati, bruciati, vio­lentati, affamati. Tutti ne parlavano. Ne scrivevano. Opinavano; Facevano confronti. Paragoni. Ri-lasciavano interviste. Solidarizzavano. Si tenevano informati per sapere. Non sapevano. Lottavano so­lo per la pace. E ogni guerra è santa: SGRUNT!

Sgrunt: Esclamazione di rabbia usata per de­scrivere l’impotenza davanti a un fatto altamente drammatico.

Sgrunt!: Quando all’esclamazione si vuole dare peso maggiore

E poiché né io né Marco nulla possiamo fare, continuiamo le nostre carte dopo avere inutilmente sgruntato.


Beppe Costa

Romanzo siciliano, 1984


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