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Simona Borgatti. “Ci metto la firma – La gavetta dei giornalisti famosi” di Mariano Sabatini 
Ovvero la recensione di un libro sui giornalisti scritta col mouse di una cronista di campagna semi senior
13 Dicembre 2009
 

Giornalisti farabutti”, questo l’epiteto autunnale coniato dal nostro Premier in merito alle recenti vicissitudini della stampa nazionale, parte della quale, dopo questa invettiva, ha stabilito che in Italia la libertà di informazione è una chimera e in un sabato di ottobre ha sfilato indignata per rivendicare l’orgoglio della categoria.

Chi scrive non è giornalista professionista, ma una cronista di campagna un po’ âgée se paragonata agli aspiranti cronisti ventenni, ovvero una che nella vita “fa altro”, ma che possiede un Avatar scandalosamente innamorato della carta stampata che l’ha condotta alle collaborazioni con alcuni giornali locali. Quando l’Avatar legge gli epiteti berlusconiani o vede i taccuini agitarsi in manifestazione inizia a porsi delle domande. A parte quella da un milione di euro, ovvero “Esiste o no la libertà di stampa in Italia?” per la quale non sa proprio rispondere a meno di misurarne il grado attraverso la suscettibilità del lettore tirato in causa e perciò aspirante querelante, dicevo – l’Avatar si pone altre domande, tipo “Ma com’è il mestiere del giornalista? È tutto rose o possiede le immancabili spine? Perché ha un così forte potere di attrazione?”

L’Avatar ha trovato in parte le risposte alle sue domande sotto il sole cocente della Grecia, la scorsa estate, molto prima dunque degli scandali autunnali, in un libro: Ci metto la firma. La gavetta dei giornalisti famosi, Aliberti Editore, di Mariano Sabatini, classe 1971, giornalista professionista, critico televisivo e artefice, tra l’altro di Trucchi d’autore in cui si narrano gli escamotage letterari di molti scrittori e scrittrici italiani.

Sabatini, intervistando ben 60 firme del giornalismo italiano, racconta la vita, i sacrifici, gli inizi, le regole, gli aneddoti di una professione che mentre prima si dipanava tra i fax e la magica Olivetti Lettera 32, ora invece tra blog, telefoni satellitari, palmari, black barry, e giornali on line, ricerca una nuova identità. E l’opera, oltre a soddisfare le legittime curiosità di chi è attratto da questo mestiere, offre anche un interessante spaccato sociale dell’evoluzione della professione giornalistica. L’Avatar vorrebbe, per trasparenza di cronaca, elencare tutti e 60 i big dell’informazione, ma faticherebbe a stare nelle “battute”, primo scoglio dell’aspirante che in 50 righe deve essere al contempo originale, raccontare i fatti avendo controllato le fonti, incuriosire il lettore e non incappare in querele. E poi, mai vorrebbe offendere quelli che non si vedono citati: o tutti o nessuno, dunque.

L’autore a tutti i suoi interlocutori rivolge spesso le stesse domande ed è interessante scoprire che la maggior parte di questi dà risposte molto simili le cui differenze vanno ricercate principalmente nella personalità dell’intervistato e nella sua formazione alla professione. Si scopre, ad esempio, che la curiosità, per la maggior parte degli intervistati, è la dote principale per un giovane che si affaccia alla professione insieme alla perseveranza, dote necessaria per riscrivere un articolo cestinato quattro volte dal capo redattore o per tallonare le fonti. E scopriamo così che la vita del cronista con “cestino a vista” non è proprio quella romanzata intessuta di whisky, sigarette e sregolatezza, ma è fatta di sacrifici in cui la vita privata spesso viene messa a dura prova. Specie se il cronista fa l’inviato in zone perigliose.

Anche Sabatini punta il dito, se non sulla libertà di stampa, sulla separazione dei fatti dalle opinioni. Qui le risposte raccolte non convergono: per alcuni giornalisti sì, per altri no, per altri ancora “ni”. Per Feltri – e mi perdoneranno gli altri 59 – ad esempio, «…la scelta stessa dei vocaboli usati per raccontare rivela un’opinione». Il Vero Cronista non dovrebbe “avere un opinione”, ma raccontare i fatti per permettere al lettore di “farsi un’opinione”, però forse, proprio perché l’Italiano – inteso sia come cittadino sia come lingua – è individualista e carico di sfumature, presto si arriva alla pragmatica e sincera dichiarazione di Feltri.

Sull’uso corretto della nostra lingua molti sono dell’idea che la sintassi vada conosciuta o quanto meno applicata, ma anche l’uso dell’aggettivo, secondo la ricetta anglosassone, è molto importante così come avere un buon “attacco” – l’inizio del pezzo – che possa incuriosire il lettore o lo stile il quale possa elevare il semplice cronista a “firma” del quotidiano.

Il libro di Sabatini può considerarsi un affresco corale del giornalismo italiano, quasi una foto di gruppo perché a Sabatini piace immaginare il giornalismo come «…una grandiosa sinfonia di voci». Da queste 60 voci che si raccontano molto bene e con sincerità, in nome della libertà di espressione, si impara che il giornalismo in tempi di blog e rete è comunque cosa molto seria alla quale anelano ancora oggi molti giovani aspiranti cronisti. E difatti l’autore, con questo libro, vorrebbe essere utile proprio a chi, come ha fatto lui in passato, è agli inizi della gavetta e «muove i primi passi nel giornalismo senza santi lassù né protezioni politico-familiari». E le numerose lettere che Sabatini riceve ogni giorno da aspiranti cronisti o giornalisti praticanti ne sono una diretta testimonianza che riflette ancora in molti giovani la presenza delle passioni e degli ideali.

 

Simona Borgatti


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