“Qui riposa un mulo senza matricola, ibrido di tenacia e nobiltà, compagno d’armi, pioniere delle nuove conquiste, forte negli aspri cimenti, paziente nelle dure privazioni, dimenticato dai più nella gloria della vittoria”.
“Quale vittoria?”, chiesi.
“Quella di mio nonno””, rispose un uomo che doveva averne, di anni, più di settanta. “La grande guerra”, aggiunse.
“L’ha scritto suo nonno, questo epitaffio?”.
“Può darsi. Ne era capace”, ripose con una punta d’orgoglio. “Era un conducente di muli. Mi raccontava storie. Di lui e dei muli, dei suoi muli”.
Ero lì in cerca di storie di muli. Della prima e della seconda guerra mondiale. Un animale sfruttato al massimo nelle situazioni peggiori e ora abbandonato a se stesso.
“Bisognerebbe farglielo, un monumento, al mulo”, disse l’uomo.
“Lei sa di una mula che ha partorito da queste parti?”, chiesi d’improvviso.
L’uomo scoppiò a ridere. “Lei, proprio, è digiuno in fatto di muli”, riuscì a dire.
“Certo che sono digiuno. Ma non capisco perché abbia riso così alla mia domanda”.
“Perché la mula non fa figli”, disse.
“E chi gliel’ha detto? Il mulo maschio è sterile, ma la femmina può partorire. Accoppiata a un cavallo e a un asino”.
“Racconta barzellette”.
“Eppure è vero. Dal 1527 sono stati documentati almeno sessanta così di mule che hanno partorito. E la prole è cresciuta e vissuta bene”.
“Sarà. Comunque, mai sentito che sia avvenuto un fatto del genere qui. E ora non sono più di primo pelo e neanche di secondo. Né mio nonno né mio padre mai m’hanno raccontato che sia avvenuto”.
Anche suo padre era un conducente di muli. Artigliere. Campagna di Russia. Era tornato vivo, senza un piede e senza i suoi tre muli. Aveva visto un’ecatombe di uomini e di muli.
“Sicché suo nonno e suo padre erano sconci”.
“Già, li chiamavano così, i conducenti di muli. Niente d’offensivo. I conducenti di muli erano gente tosta. Capaci d’affrontare tutte le situazioni. Anche la brutta bestia della notte, per sentieri terribili. Portavano di tutto. Dai cannoncini alla posta, dal pane al vino, dai feriti ai morti. Un’ora di sosta sotto un telo d’incerato, dopo aver messo la musetta con la biada ai muli, e aver bevuto un bicchiere di vino, eppoi di nuovo in cammino, sotto la pioggia o la neve, nel fango, sperando nella buona sorte”. Scosse il capo. “Lo sa che circola anche la preghiera del mulo?”
“Sì”, risposi. “L’ha scritta Eros Urbani. Architetto e arredatore, figlio del capitano degli alpini Mario, mi dicono combattente in Montenegro”.
“Se devo dire la verità non è che mi piaccia”.
“Esiste anche un panegirico del mulo. Niente d’importante. Meglio Trilussa”.
“Chi?”
“Trilussa. Poeta romano. Importante, anche se non considerato più di tanto oggi”.
“Cosa ha scritto?”
“Ha dedicato tre poesie al mulo”
“Sa qualcosa a memoria?”
“Mi ricordo due versi. Uno dice: er mulo è un animale intelligente. E l’altro: er mulo è un animale de giudizio”.
“Un po’ poco per giudicare”.
“Mi dispiace, non ricordo altro”.
“Quando le ha scritte?”
“Nei primi anni del Novecento”.
“Quando i muli erano necessari”.
“Ma lei non sa storie di muli?”
“Si sono perse”.
“Mi dicevano di un mulo chiamato Flacco”.
“Ah, sì. Si racconta che sia vissuto a lungo, nonostante abbia fatto un sacco di guerre. Ma non so se sia vero. Sa, anche sui muli possono nascere fantasie”.
Riccardo Cardellicchio