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Conferenza: Africa centrale e Grandi Laghi  
La società, la politica e le guerre ma anche il grande sogno dell'Africa: l'Africa salvata dagli Africani
Il Burundi in un
Il Burundi in un'opera di N. Odette 
10 Maggio 2006
 

Si è rivelata un'interessante e appassionata conferenza quella tenuta il 28 aprile scorso presso la Sala Vitali del Credito Valtellinese a Sondrio dal professor Pierluigi Valsecchi, esperto africanista - come lui stesso si è definito - originario del capoluogo.

L'iniziativa era stata promossa da LAVOPS, in collaborazione con numerose associazioni di volontariato locali, con l'intento consueto di sensibilizzare l'opinione pubblica circa i grandi temi che interessano il mondo della solidarietà. Il progetto prevedeva una rassegna d'arte e artigianato del Burundi, che ha avuto luogo a Sondrio dal 21 aprile al 7 maggio scorsi, e un incontro tenutosi la sera stessa dell'inaugurazione della mostra avente ad oggetto Italia e Burundi oggi, condotto da Padre Gianni Nobili, sacerdote comboniano per più di trent'anni missionario in Africa.

Autore del libro Africa, la storia ritrovata (in collaborazione con Gianpaolo Calchi Novati), Valsecchi conduce una sistematica attività di ricerca in Africa ed è docente universitario a Teramo quale ordinario di Storia e istituzioni dell'Africa. In questa veste è stato presentato da Francesco Racchetti, del Richiamo del Jobél, il quale ha sottolineato come la cultura africana vanti un grosso credito nei confronti del mondo occidentale che, nel corso della storia, l'ha rapinata nelle persone, nelle ricchezze, nei valori, nella tradizione... Per questo - ha affermato - è nostro preciso dovere tentare di approfondire la nostra conoscenza di quel mondo tanto usurpato e ora sofferente, nei suoi aspetti di dramma come in quelli apportatori di cultura e scambio per una volta alla pari.

Nel corso della conferenza del 28 aprile, il prof. Valsecchi ha indirizzato l'attenzione della platea e la riflessione sulla situazione del Burundi e del Ruanda, focalizzando così il tema della serata Africa Centrale e Grandi Laghi – La società, la politica e le guerre ed evidenziando in modo particolare il processo di colonizzazione, prima, e di conquista dell'indipendenza, poi, avuto dal continente africano. Il relatore ha sottolineato quanto tale processo sia stato relativamente veloce, coprendo l'arco di settant'anni in media (massimo cento, in rari casi), ma anche in che misura abbia lasciato strascichi e influenze drammatiche, come si possono riscontrare ormai da decenni e fino ai giorni nostri. La colonizzazione dell'Africa ebbe inizio verso la fine del 1800; con essa si procedette a ridisegnare i confini degli Stati africani, dividendoli o assemblandoli in maniera arbitraria, unicamente funzionale agli stessi stati colonizzatori. Nel 1960 si contava già più di una quindicina di Stati ormai indipendenti. Fu quindi, grosso modo, una sola generazione ad essere testimone diretta di questo sfruttamento coloniale, portato avanti da sette, otto Paesi europei con modalità assai diverse da quanto avvenne ad esempio nell'America del Sud.

In questo contesto Burundi e Ruanda, stati di dimensioni ridotte - col Burundi grande quanto Lombardia ed Emilia Romagna insieme, per intenderci - rappresentano un caso emblematico: sono due nazioni speculari, ossia molto simili fra loro, vi si parla la stessa lingua, si condividono le medesime tradizioni, la loro storia è comune, la composizione del ceppo popolare è la stessa. Tutti e due i Paesi hanno alle spalle una lontana storia di unificazione consolidata, avvenuta nel diciassettesimo secolo, riconosciuta e confermata dallo stesso colonialismo europeo, caso più unico che raro. All'interno del Burundi come del Ruanda sembravano quindi esserci tutti i presupposti per una pacifica esistenza dei rispettivi abitanti. Invece, nonostante tale storia in apparenza ben risolta, la guerra etnica che vi si scatenò fu tra le più feroci che si ricordino. Ad affrontarsi con terribili aggressioni ed un vero e proprio genocidio, furono i Tutsi, da una parte, e gli Hutu, dall'altra cioè i discendenti dei più noti (all'Occidente) Vatussi e Bantu. Due etnie (ma il concetto, precisa il relatore, è alquanto improprio e del tutto asservito a logiche di potere più sottili) che fino ad allora - e i conflitti ebbero inizio nella prima metà degli anni novanta - coabitavano tranquillamente e con una normale storia di commistioni, unioni matrimoniali, legami e rapporti comuni che appunto per questo, avevano materialmente azzerato ogni differenziazione fisica a dispetto di quanto si sia voluto far pensare al mondo occidentale. Occidente radicato in un immaginario che, dagli anni '30/'40 vedeva il mito dei Vatussi come razza fisicamente predominante, con individui altissimi e bellissime donne, ritratte con vesti splendenti e mirabolanti acconciature ad enfatizzare tratti eleganti, quasi regali e d'altra parte rappresentava i Bantu come individui insignificanti, con nessuna attrattiva, di statura bassa, appartenenti al ceppo pigmoide, rozzi nei movimenti e nelle occupazioni...

A questa suggestione delle teorie razziali non seppero schermirsi i colonizzatori e, in certa parte, anche la Chiesa cattolica. Del resto questa lettura (Tutsi dominatori e Hutu servitori) fornì una base ideologica favorevole ai quadri dirigenti che si trovavano originariamente - questo sì - soprattutto fra i Tutsi, per questione di rilevanza socio-economica e conseguentemente di ceto: i Tutsi venivano visti come una razza predestinata al potere, con una storia alta, cominciata nella Valle del Nilo, nell'antico Egitto, ricca di tradizioni orientali, con un principio di nobiltà che riusciva così a spiegare come fosse possibile per dei “negri selvaggi” mostrare bellezze e capacità come quelle, preferendone l'attribuzione ad un'origine più consona, bianca e solo in seguito meticiattasi coi neri.

Si pensi - ha precisato il relatore - che tale ricostruzione ideologica falsa venne di fatto accettata e fatta propria anche dagli Hutu, i quali riconoscendo la supremazia dei Tutsi decisero di volerla combattere. È in questo modo che si affermò l'idea delle due etnie e che iniziò il decennio di quel terribile conflitto.

Oggi, dopo gli accordi di Pretoria che sancirono la fine della guerra nel 2003, il Burundi ha un sistema politico costituzionale che garantisce alle due comunità Tutsi e Hutu, e ad una piccola minoranza pigmoide, precise quote rappresentative, perfino alle donne impegnate in politica. È un sistema alquanto laborioso, che rappresenta però una vera e propria svolta storica: per la prima volta le parti in causa si sono reciprocamente riconosciute, hanno ammesso la situazione di conflitto, intendendo scioglierne i nodi, grazie alla presa di coscienza del fatto che il sistema debba rappresentare il più gran numero di parti possibili. La strada per una pacifica convivenza è comunque ancora difficile. Sono più di 400.000 i profughi del Burundi che devono ancora rientrare dalla Tanzania e da altri Paesi, dove si erano rifugiati e queste persone costituiscono verosimilmente un potenziale di violenza. Sarà augurabile che il Governo vigili sul loro rientro, cercando di risolvere preventivamente il problema delle case occupate, delle terre sottratte... affinché si eviti l'accendersi di nuovi focolai di guerriglia se gli esiliati dovessero identificare i nuovi possessori come Tutsi a loro ostili.

A completamento dell'esauriente conferenza del prof. Valsecchi, si sono avuti gli interventi di una rappresentanza del Burundi: due sacerdoti burundesi e l'agronoma dott. Fides Marzi Hatungimana, da trent'anni abitante a Sondrio, dopo esservi giunta, bambina, in seguito al conflitto nel suo Paese. Di quest'ultima l'apprezzata idea di un progetto per creare i presupposti di un maggiore inserimento nella vita produttiva dei giovani del Burundi, i quali dopo anni di guerra si sono visti privare, fra le tante cose, anche del diritto allo studio e al futuro. Quel che il comitato o l'associazione che ci si propone di creare (e che si chiamerà con un nome africano che significa Lavoriamo Insieme) dovrebbe portare avanti è un progetto di formazione tecnica nelle province di Cibitoke e Bubanza, nella parte nord occidentale del Burundi, a maggioranza Hutu, in cui la mancanza di infrastrutture efficienti (sia di tipo culturale sia di tipo sanitario) è più evidente.

Il terreno e un edificio sono già a disposizione del gruppo; si tratterebbe di sistemare il piccolo complesso - situato vicino ad una scuola ad indirizzo tecnico presente in zona grazie sempre alla cooperazione - ed avviare in esso una sorta di convitto in cui alloggiare gli studenti. A loro il compito, invece, di procurarsi il vitto (provengono tutti da famiglie di coltivatori e pastori), all'insegna di un discorso di responsabilità reciproche che faccia sentire tutti motivati ed artefici del successo del progetto stesso. Al fine di recuperare i fondi necessari, l'associazione si propone una serie di microprogetti e intende organizzare dei campi di lavoro sul posto che portino alla rimessa in pristino o alla creazione di strutture e impianti danneggiati durante gli anni del conflitto e mai più sistemati. Un'idea da tener presente sarebbe quella di incentivare il turismo in questo Paese - ha continuato la dott. Marzi - che si sviluppa intorno alla zona dei grandi Laghi, con possibilità ancora tutte da sfruttare, magari creando un Bed & Breakfast che potrebbe essere gestito da gente del posto, dopo averla formata in tal senso. A questa iniziativa sarebbe funzionale l'insegnamento di competenze riguardanti l'accoglienza ai turisti, la fabbricazione di suppellettili, materassi e quant'altro possa servire allo scopo, tramite creazione di cooperative.

I sacerdoti presenti, tra cui Padre Gianni Nobili, concludendo, hanno rimarcato la necessità di lavorare per progetti ampi, che si sanno realizzabili nel tempo, senza fretta, bensì con grande impegno. «Dare venti euro a un povero non risolverà la sua miseria, ma lavorare per la costruzione di una scuola, per un bambino che diventerà un adulto di vent'anni messo in grado di imparare qualcosa, allora sì, sarà cooperare per lo sviluppo. Non solidarietà per poveracci, ma amicizia sincera, interessandosi passo passo di quel che si va muovendo».



L'ARTE DELL'AFRICA


Ha partecipato alla serata anche Gigi Pezzoli, vicepresidente del Centro Studi di Archeologia Africana (CSAA) che ha sede presso il Museo di Storia naturale di Milano.

Ricercatore occupatosi di oltre quaranta missioni dal Mali al Congo, Namibia, Tanzania ecc. promuove la conoscenza della cultura africana attraverso seminari, mostre e pubblicazioni. Si interessa in particolare di archeologia e antropologia. Il suo intervento nel corso della serata ha mirato a ribadire quanto poco ancora si conosca della tradizione e della cultura di questo continente, troppo spesso sfruttato, deprivato e sottovalutato dal nord del mondo.

È ancora necessario, ha sostenuto, sgretolare lo stereotipo che vuole l'Africa Paese senz'arte, senza storia artistica, mentre molti suoi luoghi presentano una presenza archeologica di tutto rispetto.

«Troppe volte la visione di un immaginario può trasformare ciò che invece è reale, a volte la sensazione», ha detto, «è che l'Africa inventata sia più reale per l'opinione pubblica dell'Africa reale! È quindi sul modo di guardare a questi aspetti dell'arte africana che occorre lavorare, ragionando a partire dalla conoscenza, scevra il più possibile da preconcetti e stereotipi».

Da qui l'invito a studenti e ricercatori ad appassionarsi all'attività del Centro.


Annagloria Del Piano


per informazioni rivolgersi a:

L.A.V.O.P.S. Tel. 0342 200058

Fides Marzi Hatungimana 329 2280309

e-mail: fides.marzi@virgilio.it

Il richiamo del Jobél 0342 515409


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