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Il sardonico Massimo D'Alema e i suoi critici
09 Maggio 2006
 

Quanto D’Alema – il velista e il D’Alema scarparo titinnante pelli scamosciate con l’annessa scia di togliattismo liofilizzato in battute sardoniche – urtichi chi scrive, nel “Calamaro Gigante” c’è traccia, in profondità e in superficie.

 

Insomma la tradizione dell’ex PCI (che fra l’altro ha lobotomizzato la sua storia, anche eroica, sia di opposizione al fascismo e al Vaticano che saccheggiava città come Roma a colpi di cemento negli anni Cinquanta, sia di lotta al capitalismo feroce del secondo dopoguerra che le masse subalterne le triturava negli orari di fabbrica e nei licenziamenti oltre che con le fucilate di Scelba) condensatasi malamente nel teorico della Bicamerale e nel pennone fassiniano ancorché televisivo non ci piace, ma chi rifiuta D’Alema perché erede del comunismo sovietico, intendo il PdV (Partito del Vaticano) con annessi fedeli cantanti la messa di qualche editoriale integralisticamente ben confezionato su anni di revisionismo e anticomunismo peloso; o da chi erede del nazifascismo come Alleanza Nazionale ha persino cambiato la Costituzione antifascista a colpi di maggioranza, e chi lo osteggia fieramente con piglio gruppettaro come i Girotondisti e i tenutari di Micromega come Flores d’Arcais e i vari Claudio Rinaldi dell’Espresso che decantatisi nell’editoria di successo dall’eredità dei gruppetti dell’estrema sinistra, combattono D’Alema per frustrazioni personali o mancato successo politico o trombature politiche quando trotskystamente s’intrufolarono nel PCI prima di coniugarsi nel PSI craxiano, non è convincente.

 

Più accettabile e libertaria la posizione della Rosa nel pugno, che contesta D’Alema affermando che, dopo la scelta del candidato premier dell’Unione, anche per il Presidente della Repubblica ci volevano consultazioni tipo primarie, e così le oligarchie dei partiti, dove D’Alema è ben insediato, avrebbero avuto qualche sorpresa.


Claudio Di Scalzo


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