Un bel giorno, un professore di matematica entra in aula per fare lezione. Si toglie il cappotto, saluta gli studenti, invita ad aprire i manuali. Dopodiché, si schiarisce la voce e dice: “Alessandro Manzoni era un analfabeta, un vero deficiente”. Come reagirebbero gli studenti di fronte a un’affermazione così estemporanea e fuor di competenza? Forse, esattamente come gli elettori di fronte al ministro per l’attuazione del programma di governo, Gianfranco Rotondi, che spara a zero contro la pausa pranzo.
Già che il ministro Rotondi spari a zero fa sobbalzare sulle sedie. Anche che Rotondi sia ministro è imbarazzante. E sorvoliamo sulla necessità di un ministero per l’attuazione del programma.
Ma come può essere, per quale motivo, con quale autorità un ministro deve “esternare” a proposito di un argomento che nulla c’entra con la propria carica istituzionale, per giunta ridicolo? E com’è possibile che giornali e tv possano dare spazio restando seri, chiedendo pareri, approfondimenti e commenti?
Eppure, pare essere diventato un trend irrinunciabile. Ignazio La Russa, tanto per fare un esempio, ormai in preda a terrificanti disordini lessicali, pensa di essere ministro dell’Attacco, parlando di “finte istituzioni europee”, e della Difesa, ma non del sacro suolo italico, bensì del crocifisso nelle aule di scuola. Titubando ulteriormente sull’intrinseco valore della carica ricoperta, il diastematico ministro fa passare solo qualche giorno prima di lasciarsi andare a un indefesso: “In aula difenderei Moggi”. Arduo difendere Moggi e Gesù Cristo crocifisso nella stessa settimana. Attendiamo che il ministro, per completare il quadro, assuma come consulente uno tra Billy Costacurta, Tarzan Annoni o Pasquale Bruno.
Il ramo culturale non può certo tralasciare Renato Brunetta: dall’alto della sua poltrona da ministro della funzione pubblica, dichiara che la sinistra, “parte peggiore del paese”, dovrebbe “morire ammazzata”; che la mostra del cinema di Venezia è una “mostra di parassiti”; che i “poliziotti sono dei panzoni”; che gli studenti dell’Onda “vanno trattati come guerriglieri”.
Ci sono poi veri maestri del settore. Ma evitiamo l’avventura nello sterminato e impervio repertorio del presidente del consiglio perché il 2012 è troppo vicino.
Quando queste “gaffe”, queste “battute”, o “provocazioni” invadono lo spazio del dibattito pubblico, la gente reagisce in due modi: pro o contro, a seconda della bandiera di chi espone tali illuminanti concezioni della vita e della pausa pranzo, a prescindere da essi.
Ma quelle “sparate”, quelle “gaffe”, quelle “battute” e quelle “smentite” non sono leggerezze. Esse fanno parte di una strategia di comunicazione precisa. Un modello che si pone a metà tra la comunicazione politica e quella pubblicitaria, fondato sulla personalizzazione sempre più accentuata della dimensione pubblica. Non importa ciò che si dice, chi si attacca, e i termini, più fanno scandalo, meglio è.
Succede tutto questo negli altri stati? Certo che succede. Succede perché ormai dovunque la politica vive d’immagine, e l’immagine di mezzi di comunicazione.
Esiste però una differenza sostanziale tra il nostro paese e gli altri Stati avanzati. In nessun altro posto il concetto di “campagna elettorale permanente” si è radicato come da noi, diventando praticamente l’unica modalità politica praticata.
Colpa dei politici? Sì, ma non solo. Una buona dose di responsabilità deve essere addebitata agli elettori. Da molte parti, gli elettori/consumatori sono indicati come ormai assuefatti e passivi. Un’ipotesi che può essere vera, ma che produce un effetto tutt’altro che scontato: quello della “fame da gaffe”. Insomma, la politica in senso tradizionale ormai non interessa più a nessuno, è considerata noiosa, roba da “vecchi arnesi”; e allora, cosa può esserci di meglio di un bel ring televisivo in cui si confrontano ministri, starlette e divi del cinema su qualsiasi argomento in modo indistinto?
Il modello di comunicazione politica contemporanea trova un illustre antesignano: Oronzo Canà e il suo 5-5-5. «E in mezzo a tutto ‘sto casino, gli altri non capiscono più un chezzo e noi, zak!, segniamo!».
Un’analisi preveggente che illustra alla perfezione ciò che succede oggi. Nella baraonda generale, in cui tutti dicono tutto e il contrario di tutto, gli altri, cioè gli elettori, non ci capiscono più un chezzo e alcuni, zak!, segnano.
Entrambi gli schieramenti latitano in modo imbarazzante sui contenuti. Ma, seguendo fedelmente il 5-5-5, il centrodestra non comunica nulla ma lo fa bene; il centrosinistra non comunica nulla e lo fa pure male. A parità di scatole vuote, quelle berlusconiane scintillano e stupiscono; quelle di sinistra sono polverose, cupe e smorte.
È come se il centrosinistra parlasse una lingua morta, insistendo sul fatto che l’opposizione si fa sui contenuti: ma a quanti, nel paese, interessano davvero i contenuti più dei contenitori? A guardare la sinistra oggi pare di vedere gli indiani che sfoderano arco e frecce contro i fucili dei cowboy, o i samurai giapponesi che galoppano spada in pugno contro i mitragliatori automatici ne L’ultimo samurai.
Come uscire da questa situazione? Un ruolo fondamentale dovrebbe essere quello della stampa. Dovrebbe essere il giornalista a smascherare i meccanismi che stanno dietro a certe logiche; dovrebbe essere il giornalista a destrutturare, semplificare e spiegare al corpo elettorale come funzionano gli ingranaggi del “Palazzo”.
L’impressione, però, è che anche la stampa abbia abdicato: un clima di guerra continua, una feroce campagna elettorale che dura dodici mesi l’anno, offre mille spunti di polemica, mille titoli, mille litigi, mille scontri che comprensibilmente fanno aumentare vendite e introiti.
Eletti, elettori e “cani da guardia” giocano tutti allo stesso gioco. Se questo sia un fatto positivo o negativo, ognuno la pensa come vuole. Del resto, anche la Longobarda si salvò all’ultima giornata col 5-5-5 dopo un campionato truccato. Potrebbe essere un buon auspicio. Ma anche no.
Gianni Somigli