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Gianfranco Cercone. “Richard Jewell” di Clint Eastwood
29 Gennaio 2020
 

Una qualifica che è spesso attribuita a quell'autore cinematografico che è Clint Eastwood è: conservatore. Ora, al di là delle preferenze politiche che ha espresso Clint Eastwood in quanto cittadino degli Stati Uniti – qui si tratta soltanto, appunto, dell'autore cinematografico – “conservatore” significa, a mio parere, nel suo caso, che egli ama, almeno nei suoi tratti essenziali, la forma di vita che si è stabilita negli Stati Uniti, che appunto per questo vorrebbe che si conservasse, e che la descrive nei suoi film con profonda simpatia. Ma il suo conservatorismo non gli impedisce certo di osservare che quella forma di vita è a volte macchiata, contaminata, da gravi ingiustizie. E non implica nemmeno che egli sia un conformista, perché anzi spesso nei suoi film sfida certi pregiudizi che allignano nel “senso comune”.

Per esempio, nel suo ultimo film intitolato: Richard Jewell, ispirato a un fatto realmente accaduto il cui protagonista aveva lo stesso nome del personaggio che dà il titolo al film, Clint Eastwood racconta, e a suo modo celebra, un'impresa eroica.

Ma il suo eroe non ha quasi nessuno dei tratti positivi che sono abitualmente attribuiti agli eroi. È un uomo frustrato – avrebbe voluto entrare nell'FBI ma al momento non gli è riuscito, ed è stato licenziato come sorvegliante in un campus universitario anche perché ritenuto esageratamente scrupoloso; non è bello, è grasso; non ha relazioni sentimentali; non ha amici; a trent'anni tuttora convive con la madre; non appare nemmeno spiccatamente intelligente; è però un osservatore eccezionalmente attento; e soprattutto ha un profondo senso del dovere: assolve integralmente il compito che gli è stato affidato, anche a rischio della propria incolumità; e obbedisce ai regolamenti anche laddove i suoi colleghi riterrebbero più opportuno sorvolarvi.

È grazie a queste sue qualità – che a volte potrebbero essere scambiate per difetti – che un giorno in cui, nella città di Atlanta, si tiene un concerto in un parco – nel '96, in occasione delle Olimpiadi che avvengono in quella città – riesce a sventare almeno in parte un attentato, salvando tante vite umane.

Ma sarà forse proprio la sua diversità, la sua immagine non conforme al cliché dell'eroe, che lo renderà suscettibile di un sospetto infame: che sia stato lui stesso a organizzare l'attentato, per attribuirsi il merito del salvataggio.

Il film di Clint Eastwood, oltreché un fine ritratto di un eroe che ha l'immagine di un perdente, è anche una sua difesa, basata su un principio: la qualità che più conta in un individuo non è il suo prestigio sociale, la sua fortuna, ma la capacità di compiere il proprio umile dovere per il bene comune.

Se l'avvocato che difende Richard Jewell è lui stesso un perdente, che però ha l'acume di intuire, contro il dilagante pregiudizio, l'innocenza del suo assistito, e riceve da questa certezza la determinazione a difenderlo con vigore, un contrappunto a entrambi i personaggi è il funzionario dell'FBI che indaga contro Richard Jewell: il quale ha invece i tratti del cittadino per bene, integrato, elegante, disinvolto, bello, ma che contravviene al proprio dovere: e non perché indaga su una pista sbagliata, ma perché cede a una debolezza: rivela il nome del sospettato a una giornalista, per sedurla.

Lo sguardo di Eastwood, proprio perché scevro da pregiudizi, fedele a una saggezza maturata dentro di lui, riesce a ritrarre fatti e personaggi – con un suo tocco sobrio e preciso – dandoci costantemente un senso di verità, di un racconto libero da artifici retorici.

Se dell'“eroe” non sono taciute le fragilità, il senso di inferiorità che sottostà al suo coraggio, il concerto in piazza è reso nella sua allegria intaccata da un'ombra di tristezza: perché è una società che celebra la sua coesione mentre una forza potente la minaccia.

Un bel film, da vedere.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 25 gennaio 2020
»»
QUI la scheda audio)


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