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Sergio Caivano. La Resistenza scritta dai partigiani
29 Settembre 2022
 

Moltissimi storici, nel corso di questi lunghi anni che ci separano dalla Liberazione, hanno scritto sulla Resistenza italiana. I più magnificandola, esaltando le gesta di coloro che si erano battuti per la libertà contro la spietata dittatura nazifascista. Altri autori, soprattutto nel periodo del cosiddetto revisionismo, l’hanno invece sottoposta a diverse critiche. Molte ingiuste, strumentali e finalizzate politicamente.

La più consistente, forse perché contenente qualche elemento di verità, è certamente quella di averne fatta, da parte di alcuni narratori, una rappresentazione agiografica. Il che, in parte e per qualcuno, risponde al vero. Qualche “rigonfiamento” c’è stato.

Sembrerà un paradosso, ma coloro che la Resistenza l’hanno fatta per davvero, e cioè i partigiani, si sono ben guardati, quando l’hanno scritta, di darne un’immagine retorica ed esaltante. Al contrario, con stile asciutto, schivo e persino minimalistico, ne hanno messo in tutta evidenza i limiti, le contraddizioni, le difficoltà concrete, gli obiettivi spesso diversificati perseguiti dalle diverse formazioni, obiettivi non di rado in contrasto tra loro, tanto che l’unico elemento certamente e sempre unificante è costituito dal comune antifascismo.

Dagli scritti dei partigiani emerge un complesso vivo, articolato, differenziato non solo tra le varie formazioni ma, talvolta, anche all’interno delle stesse. Senza l’intenzione di farne un’elencazione esaustiva, chiaramente impossibile per la vastità delle opere uscite sulla materia, moltissime con valenza locale, fornirò, qui di seguito, alcune indicazioni su autori e lavori maggiormente conosciuti.

Il primo libro scritto da resistenti esce nel 1945. Si intitola Uomini e no. L’autore è Elio Vittorini, siciliano di Siracusa, scrittore che approda a Milano nel 1940. Sopporta i bombardamenti alleati, viene incarcerato, sembra un paradosso, il 26 luglio 1943 per aver organizzato un comizio in occasione della caduta di Mussolini e, dopo l’8 settembre ’43, entra in contatto con i primi gruppi antifascisti. Lo scritto narra le alterne vicende di un gruppo di Gap che fa rivivere gli anni della guerra, con gli attentati, le sparatorie, le uccisioni, le atrocità di un momento terribile della nostra storia, fatta rivivere con passione congiunta a lucidi interrogativi. Il lavoro rappresenta una viva e sofferta testimonianza. In mezzo agli orrori, c’è chi riesce a dare un senso alla propria vita. C’è spazio anche per l’amore. Occorre resistere, resistere fino a quando l’inferno passi. Ma c’è, soprattutto, un dialogo con se stesso, sulla natura dell’uomo, ad un tempo capace di uccidere e di amare, di compiere le azioni più perverse e di sognare un mondo migliore.

Una testimonianza toccante sulla Milano del 1944. Edito da Il Mulino nel 1945, scritto nei mesi finali della guerra, in Un uomo, un partigiano, Roberto Battaglia ci presenta uno scritto snello che, in calce alla prefazione, riporta una data ed una località: Roma, 15 aprile 1945. È la sua testimonianza della vita di una tra le prime formazioni partigiane, la “Lunense”, costituita prima e poi guidata dall’autore del libro, sull’Appennino toscano. Battaglia sente subito il bisogno di raccontare la sua esperienza. La pubblicazione precede, nel tempo, la conclusione della guerra di Liberazione. Nel gennaio 1945, infatti, Battaglia, commissario politico di Giustizia e Libertà, viene richiamato a Roma e deve lasciare ad altri la guida della formazione. Ma vuole ricordare la vita condotta tra i boschi e le azioni eseguite. Senza farsi irretire dai possibili tranelli di una narrazione propagandistica e celebrativa, ma ricordando anche gli arbitri, le violenze, i dissidi interni. Ma la sostanza della Resistenza è altro: è la rigenerazione che trae origine da una scelta difficile e dura che getta le basi che portano ad una società diversa e migliore, anche se i patrioti, allora, non potevano esserne pienamente consapevoli.

Italo Calvino, dopo aver saputo della morte in combattimento del giovane medico comunista Felice Cascione (autore dell’inno ufficiale della Resistenza Fischia il vento), si unisce alla divisione Garibaldi intitolata allo stesso Cascione ed operante sulle Alpi marittime, teatro per venti mesi di aspri scontri tra partigiani e nazifascisti. Dopo la Liberazione, avverte come un imperativo la responsabilità di scrivere “il romanzo della Resistenza”, ma lo ritiene troppo impegnativo e solenne. Perciò inventa una storia che rimane ai margini della guerra partigiana della zona, narrando le alterne e non sempre esaltanti imprese di una ipotetica formazione partigiana vista con gli occhi di un bambino. Ne vien fuori un capolavoro letterario, Il sentiero dei nidi di ragno, che rispecchia il clima generale del momento, la tensione morale e, anche, i gusti letterari correnti nell’immediato dopoguerra. Evita, in tal modo, ogni possibile forma di “rigonfiamento” delle imprese dei partigiani. Negli anni successivi, porterà con se il rimorso di non aver reso il dovuto omaggio al valore ed al coraggio dei partigiani. Del resto, si rende conto che “Il libro letterario più rappresentativo della Resistenza non potrebbe essere altro che un’antologia”.

L’“Antologia”, nel senso di un’opera compiuta sulla Resistenza, la prova più alta e matura fornita dalla “Letteratura della Resistenza”, viene scritta diversi anni dopo, ed esce postuma nel 1968, da un altro partigiano, questo delle Langhe, Beppe Fenoglio che, dopo aver fatto parte di una formazione garibaldina ne esce per entrare in una badogliana, con il famoso Il Partigiano Johnny. È un libro in gran parte autobiografico, che narra si le azioni militari, le uccisioni dei nemici e la morte dei compagni, ma la raggiunta consapevolezza che, anche in una guerra, l’unico valore in cui riconoscersi è costituito dalla solidarietà umana, l’aiuto, anche modesto, che ciascun uomo può dare a un altro uomo. Si tratta di un libro dal forte contenuto etico. Esso segue il suo scritto d’esordio, I ventitré giorni della città di Alba, cronaca realistica della conquista della città di Alba da parte di 2.000 partigiani e della successiva perdita sofferta da soli 200, a dimostrazione che, anche tra i patrioti, risulta più stimolante battersi per la vittoria e, assai meno, resistere in una battaglia ormai data per persa. E poi La malora, e Un giorno di fuoco. Successivamente escono La paga del sabato e Appunti partigiani. Tutti racconti della vita partigiana resi con sincerità e realismo.

Un altro piemontese di Cuneo, Giorgio Bocca, scrive a lungo della sua esperienza partigiana, che inizia presto, subito dopo l’8 settembre, e termina da commissario politico della Divisione “Giustizia e Libertà” solo con la Liberazione. Anch’egli narra la sua lunga avventura senza ricorrere ad aggettivi strabilianti, ma ricordandone tutti gli aspetti, anche quelli meno piacevoli. Fa il giornalista e scrive, nel corso della sua lunga vita, una sessantina di libri. Spesso ritorna sul tema che più lo ha appassionato e lo ha visto protagonista, la Resistenza, che tende a storicizzare, rivelandone fieramente tutti i suoi aspetti, e che continua a difendere dagli attacchi e dalle critiche mosse nei confronti del movimento partigiano. Tra i tanti lavori, ricordiamo: Storia dell’Italia partigiana, Storia d’Italia nella guerra fascista, La Repubblica di Mussolini; tra gli ultimi suoi lavori, che riprendono ed approfondiscono temi resistenziali, citiamo Le mie montagne e Partigiani della montagna. Bocca frequentava spesso la Valtellina. Conosceva bene Cesare Marelli. Avevano partecipato assieme alla scuola per ufficiali di Bassano. Si ritroveranno a fare la stessa scelta patriottica, Cesare quale comandante della prima Brigata “Stelvio” facente parte della Divisione Alpina “Giustizia e Libertà” in Alta Valtellina, e Giorgio quale commissario politico della Divisione “Giustizia e Libertà” nelle Langhe.

Le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana edite da Einaudi nel 1954, offrono uno spaccato assolutamente veritiero dei sentimenti avvertiti da quanti, condannati a morte con processi sommari o addirittura senza dal regime fascista, possono lasciare uno scritto. Naturalmente le sensazioni sono diverse. Si coglie tuttavia la fierezza con la quale stanno per affrontare il plotone di esecuzione, la serenità che li anima, l’accettazione del sacrificio compiuto per far parte dell’avanguardia d’una nuova società, per la quale si battono, che intravedono, ma non ne sono ancora consapevoli. Uno solo chiede d’essere vendicato. Si dolgono altresì per il dolore che la loro morte procura alle loro famiglie. A rileggere oggi quelle lettere c’è da sentirsi dei vermi. Ad esempio, Franco Balbis, ufficiale di Torino, condannato a morte per antifascismo, chiude la sua lettera, datata 5 aprile 44, giorno in cui viene ucciso, con le seguenti parole: “Possa il mio grido di Viva l’Italia libera sovrastare il crepitio dei moschetti che mi daranno la morte, per il bene e l’avvenire della nostra Patria e della nostra Bandiera, per le quali muoio felice!”.

Solo nel 1962 esce per Mondadori il libro Dongo: Mussolini ultimo atto. È il diario scritto a quattro mani da Pier Bellini delle Stelle, comandante della 52ª “Brigata Garibaldi – Clerici” e da Urbano Lazzaro, vice commissario della stessa. Contiene lo scrupoloso resoconto dei tre giorni fatali per il fascismo ed esaltanti per gli uomini e le donne della Resistenza, per gli antifascisti, per le popolazioni, per l’Italia intera. Costituiscono la cronaca vera dei drammatici giorni 26, 27 e 28 aprile 1945. L’appuntamento con la Storia vuole che Mussolini ed i gerarchi fascisti vadano incontro al loro destino e vengano catturati da un piccolo distaccamento della “Brigata Garibaldi Clerici”, la “Puecher”, operante tra Gravedona e la Val Chiavenna, di stanza sui monti del Berlinghera. Da quel momento, tutti gli attori di quell’impresa passano alla storia. La cattura e l’eliminazione di Mussolini, responsabile di tante insensate guerre e di tanti morti, e dei gerarchi al suo seguito, pongono praticamente fine al duro conflitto in corso. E consentono agli italiani di uscirne a testa alta, con onore e dignità. Il diario, volutamente scritto dagli autori senza l’aiuto di giornalisti o di scrittori, che pure si erano offerti, rispecchia i tumultuosi, coinvolgenti eventi di quei giorni ad un tempo tragici ed esaltanti. Un libro assolutamente da leggere.

Infine, occorre ricordare Diario partigiano di Ada Prospero vedova Gobetti. È la testimonianza della sua vita. Da giovanissima, Ada collabora a diverse riviste impegnate sul piano della difesa della democrazia. Considera il suo impegno un dovere, prima morale e solo dopo politico, nei confronti di un regime, quello fascista, che detesta totalmente, in ogni aspetto e manifestazione. Si schiera al fianco, come collaboratrice intelligente delle sue lotte ed iniziative, di Piero Gobetti, pensatore e politico di primo piano, di cui diviene moglie. Piero, uomo libero e perciò lucidamente antifascista, viene assalito a Torino da squadracce fasciste che lo pestano a sangue e lo costringono a cercar rifugio a Parigi. Le conseguenze delle percosse subite si fanno sentire sempre più e Piero muore. Ada resta sola, ma la sua casa diventa il centro dell’antifascismo torinese. Il Diario è, appunto, un bellissimo libro di memorie della Resistenza, la vita di una donna già segnata dalla lotta antifascista, che va a fare la guerra coi partigiani assieme al figlio di diciotto anni, e ne condivide privazioni, pericoli, disagi. Il libro offre anche una testimonianza diretta di molti personaggi noti dell’antifascismo piemontese.


Sergio Caivano


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